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Morire ad occhi aperti – Il coraggio dell’incontro


Si deve chiedere il  permesso per morire visto che nessuno di noi ha avuto il diritto e insieme  la libertà di nascere?

Siamo in tanti a domandarci come moriremo. Temiamo, giustamente, di terminare la nostra vita in uno stato di disfacimento inaccettabile, relegati in un letto, incontinenti, dementi.

Abbiamo paura di diventare un peso per le nostre famiglie e per la società…L’eutanasia è il solo modo per morire dignitosamente? Decidere di morire è un atto di coraggio? Significa prendere in mano il nostro destino?

Spesso parlare di morte è motivo di scontro, un alzare i muri nelle proprie convinzioni, nelle quattro mura del retaggio culturale e sociale in cui si vive…parlare di morte ci fa sentire deboli, vulnerabili…

Di fatto,oggi la morte  non possiede più nulla di familiare né di naturale. Si muore in ospedale, da  soli, anziché a casa tra i propri familiari.  Tutti vorremo Morire a casa  propria, senza sofferenze e senza paure, circondati dagli affetti più  cari, con la coscienza di poter così conservare la propria dignità. Tuttavia, oggi tutto si  oppone a questa speranza. La morte del mondo contemporaneo è una morte  solitaria, nascosta, spogliata del suo  senso…

Dopo tutte le recenti polemiche sull’eutanisia, MARIE DE HENNEZEL,psicologa e  psicoterapeuta francese, che ha lavorato per anni all’Istituto di cure  palliative per malati terminali di Montsouris, a Parigi, sviluppa una  riflessione profonda sulla morte e sul morire, affrontandole nel suo libro

Morire ad occhi aperti, che è un formidabile  messaggio di speranza, compassione e  amore.

C’è un’altra risposta possibile a questo desiderio di essere protagonisti di una morte dignitosa. Avere il coraggio di vivere lo svolgimento degli eventi, anche quando si perde la propria autonomia. Affidare il proprio corpo infermo nelle mani di chi ci ama, vivere questo scambio difficilmente esprimibile in cui la vulnerabilità richiama la tenerezza dei gesti, in cui la fiducia reciproca genera un sentimento di dignità incomparabile.

“Stando vicino a persone gravemente malate o prossime alla  morte, abbiamo constatato che la vulnerabilità favorisce e apre all’incontro  con gli altri. L’altro che sta per morire mi rinvia alla mia umanità di  essere mortale. Io stesso un giorno sarò al suo posto, soffrirò e starò per  morire, io stesso sono di passaggio sulla Terra ed è mio dovere dare un  senso alla mia esistenza. Allorché spariscono le barriere difensive che  mettiamo tra noi e gli altri per proteggerci, quando corriamo il rischio  dell’incontro cuore a cuore, la coscienza di ciò che ci unisce fa allora  scaturire in noi una gioia che a ragione si può definire  spirituale” afferma MARIE DE HENNEZEL “Esiste un’altra dignità, quella  che consiste nell’essere lucidi, responsabili, coscienti. Preparare la  propria morte, avere il coraggio di consultare i medici a proposito delle  paure che si possono avere, lasciare a coloro che resteranno una parola di  vita, una parola di benedizione che li aiuti a vivere senza di noi. Un  allentare la presa che testimonia la capacità di superare le proprie paure  egoistiche per affidarsi a ciò che è altro da sé, a quella dimensione  trascendente di cui quasi tutti percepiscono l’esistenza e che viene  chiamata in molti modi: Dio, Vita!

Il paradosso di questa situazione è che mostrare a un  paziente che si è disarmati, commossi, vulnerabili, lungi dall’indebolirlo  gli permette di accettare la sua condizione umana e la drammaticità del  destino. Rimanendo vicini a lui in silenzio, non abbandonandolo alla sua  impotenza, si produce una comunione intima. Se osiamo condividere i  sentimenti con i pazienti, il crollo delle nostre strategie difensive può  diventare una grazia, una benedizione.

Ma per fare questo non occorrerà  forse accettare di restare indifesi dinanzi all’altro, abbassare le proprie  barriere, entrare dentro la sua impotenza e servirsene come di un trampolino  di lancio per un momento di incontro autentico?

Allora non si tratterà più  di una relazione tra una persona forte del proprio sedicente potere o sapere  e una persona indebolita, impotente. Sarà una relazione tra due persone che  soffrono, ognuna a proprio modo, della condizione comune dell’esseri  mortali, ciò che accomuna e  lega tutti gli uomini, «la lilā dei mondi infiniti».
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dal blog di Mayra G Luois

Partendo dalla commovente esperienza della morte  dell’amico e filosofo Yvan Amar, Marie de Hennezel, psicologa e  psicoterapeuta francese, che ha lavorato per anni all’Istituto di cure  palliative per malati terminali di Montsouris, a Parigi, sviluppa una  riflessione profonda sulla morte e sul morire, che è un formidabile  messaggio di speranza, compassione e  amore.

Morire a occhi aperti è intenso,  commovente, mai banale o lacrimevole; è profondo, non scontato, con molti  spunti per una riflessione etica e sociale attenta e completa. Oltre  la vicenda umana di Yvan, la tesi del volume è che può esserci una strada  alternativa all’eutanasia: ciascuno può preparare la propria morte, cambiare  atteggiamento di fronte a essa, può addomesticarla, non negarla, imparare a  morire e a vedere morire gli altri, assicurando vicinanza e ascolto a chi si  avvicina all’ultimo passo e rispettandone i diritti.

«Oggi la morte  non possiede più nulla di familiare né di naturale. Si muore in ospedale, da  soli, anziché a casa tra i propri cari.» Ciascuno invece può avvicinarsi  alla morte a occhi aperti, se la morte non è negata, se l’ambiente  familiare e sociale l’accetta, se intorno a chi muore c’è verità e amore, se  le strutture ospedaliere sostengono, preparano e si preparano, non  abbandonano a loro stessi il malato e i suoi  famigliari.

L’incipit del  saggio è di taglio lirico narrativo, ma la trama è filosofica. L’eutanasia  secondo l’autrice è oggetto di un clamoroso equivoco perché si assume la  parte – la morte – per il tutto, l’uomo. Il punto di vista da cui muove  Marie de Hennezel è la valorizzazione della dignità. Laddove dignità  significa libertà – capacità – potere di trasformare il dolore in esperienza  per sé e per gli altri. In esperienza dotata di senso.

Marie de  Hennezel sa che il tema è controverso eppure indica questa come una base  comune su cui costruire una «politica del distacco». E’ un diritto morire  con dignità? E se lo è come è tutelabile? Oppure si deve chiedere il  permesso per morire visto che nessuno di noi ha avuto il diritto e insieme  la libertà di nascere?

«Esiste un’altra dignità, quella  che consiste nell’essere lucidi, responsabili, coscienti. Preparare la  propria morte, avere il coraggio di consultare i medici a proposito delle  paure che si possono avere, lasciare a coloro che resteranno una parola di  vita, una parola di benedizione che li aiuti a vivere senza di noi. Un  allentare la presa che testimonia la capacità di superare le proprie paure  egoistiche per affidarsi a ciò che è altro da sé, a quella dimensione  trascendente di cui quasi tutti percepiscono l’esistenza e che viene  chiamata in molti modi: Dio, Vita,  Reale. […]

Morire in questo modo a casa  propria, senza sofferenze e senza paure, circondato dagli affetti più  cari, con la coscienza di poter così conservare la propria dignità, è il  desiderio segreto della maggior parte di noi. Tuttavia, oggi tutto si  oppone a questa speranza. La morte del mondo contemporaneo è una morte  solitaria, nascosta, spogliata del suo  senso

La morte può far sì che un essere diventi ciò che  era chiamato a divenire; può essere, nella piena accezione del termine, un  compimento.

IL CORAGGIO DELL’INCONTRO
Dal libro Morire ad occhi aperti di Marie de Hennezel, Edizioni Lindau.

Perseguire il compimento di sé stessi senza tener  conto degli altri non è giusto. Sarebbe come una fuga, una debolezza. A cosa  serve sedersi su una foglia di loto, chiudere gli occhi e meditare, se  vostro figlio soffre nella stanza accanto perché è di stato lasciato solo,  se vostro marito o vostra moglie non riescono a condividere il cammino del  vostro cuore, a partecipare alle vostre preoccupazioni, a sentirsi sostenuti  e amati, se i vostri colleghi di lavoro vi vedono assente, per nulla  disponibile, se i vostri anziani genitori si sentono abbandonati?

Troppa  gente oggi cerca di fuggire la dura realtà della vita rifugiandosi in una  «quiete spirituale». Yvan lo sa, è un testimone di ciò, è per questo che il  suo insegnamento ruota attorno a quest’idea fondamentale: «È la relazione  con gli altri che ci fa crescere». Bisogna quindi assumersi il «rischio  dell’altro», andargli incontro, perché è il rapporto con l’altro che rivela  il Reale.

I parenti, i genitori, i figli, i vicini di casa, gli amici, i  dipendenti, i colleghi, tutti costituiscono ciò che Yvan Amar chiama «il  nostro incosciente esteriore». Tutte queste persone ci dicono ciò che noi  non possiamo dire a noi stessi. Ci pongono costantemente di fronte a noi  stessi. Generalmente si evita la relazione per evitare i conflitti, le  sofferenze, o perché ci si vede come vittime degli altri. Ma si può anche  diventarne discepoli.

Yvan racconta che i maestri del Talmud insegnano ai  loro allievi l’arte della relazione cosciente attraverso la lite: «Cerca un  altro discepolo e litiga con lui, irritalo». Si ritrova lo stesso  insegnamento presso i giovani monaci tibetani che si arrabbiano, si  scontrano, recitano i sutra e si contraddicono. Yvan biasima ogni  relazione che puntualmente, e tristemente, evita ogni occasione di lite.

Ci  si protegge e, così facendo, non ci si incontra davvero con l’altro. «Come  se, nelle relazioni umane, si potesse crescere con la sola meditazione, con  lo yoga, con lo zen o qualunque altra cosa, come se bastassero un po’ di  vitamine per proseguire la relazione e fare insieme qualche cosa, mentre  invece è nel cuore della relazione cosciente, perfino dell’urto cosciente,  che si stabilisce quel riconoscimento che ci fa crescere

Anche Yvan e  Nadège hanno vissuto momenti di discussione cosciente intorno alle  difficoltà che ogni coppia incontra. «Abbiamo vissuto insieme tutti i  problemi che tutte le coppie vivono. Non ne siamo stati per nulla  risparmiati. Abbiamo vent’anni di vita in comune, ma ora so con certezza –  anzi sappiamo – che per i nostri figli siamo stati l’esempio di una coppia  sempre capace di rimettersi in discussione, insomma una coppia vera.».

I  bambini hanno visto i loro genitori discutere, litigare, essere addirittura  sul punto di separarsi, ma sempre lavorare insieme, con intelligenza,  generosità, tenerezza, per trovare alla fine uno spazio di crescita, di una  vera crescita insieme. Essi costituiscono un esempio, un valore e una forza  perché sanno che attraverso un lavoro di attenzione nei confronti dell’altro  si può crescere insieme.

Vivere coscientemente la relazione con l’altro,  senza evitare i possibili scontri, conduce a riconoscere ciò che gli indù  chiamano «non-dualità», l’unità di tutte le cose e di tutti gli esseri. Non  ci sono un «io» e gli «altri», ma un «tessuto delle cose coscienti che si  compenetrano reciprocamente nell’universo intero, formando la grande trama  cosmica, la lilā dei mondi infiniti».

Assumersi il rischio  dell’altro, avere il coraggio dell’incontro presuppone il lasciar cadere le  proprie barriere difensive, mettersi a nudo, riconoscere la propria  vulnerabilità e la propria impotenza. A queste condizioni emerge la  fecondità dell’incontro: una comunione intima che dà accesso a una  dimensione profonda della vita. L’assunzione del rischio nell’incontro con  l’altro è proprio ciò che Yvan ha sempre inteso vivere e  insegnare.

Stando vicino a persone gravemente malate o prossime alla  morte, abbiamo constatato che la vulnerabilità favorisce e apre all’incontro  con gli altri. L’altro che sta per morire mi rinvia alla mia umanità di  essere mortale. Io stesso un giorno sarò al suo posto, soffrirò e starò per  morire, io stesso sono di passaggio sulla Terra ed è mio dovere dare un  senso alla mia esistenza. Allorché spariscono le barriere difensive che  mettiamo tra noi e gli altri per proteggerci, quando corriamo il rischio  dell’incontro cuore a cuore, la coscienza di ciò che ci unisce fa allora  scaturire in noi una gioia che a ragione si può definire  spirituale.

Mentre lavoravo come psicologa in un reparto di cure  palliative, abbiamo accolto una giovane donna affetta da un tumore al collo  inoperabile. La giovane donna, di origine asiatica, aveva un’incrollabile  speranza di poter guarire, era fiduciosa. Diceva spesso di essere nelle mani  di Dio. Questa fiducia spiazzava i medici. È difficile trovarsi di fronte a  una persona che ha piena fiducia nella propria guarigione quando invece si  sa che sta per morire. Il suo stato era stazionario e i medici hanno  addirittura avuto l’impressione che migliorasse. Allora hanno deciso di  tentare una nuova operazione.

La donna è così uscita dal reparto di cure  palliative per entrare in una clinica chirurgica. I chirurghi l’hanno però  aperta e richiusa immediatamente. Non era possibile operare. La giovane è  stata informata di ciò e ritrasferita nel reparto di cure  palliative. Appena sistemata nel letto, la giovane donna guarda dritta  negli occhi la sua infermiera e le chiede: «Dimmi, sto per morire vero?».

L’infermiera si sente come risucchiata nel fondo di un pozzo. Come se dentro  di sé tutto si sciogliesse. Non sa che cosa rispondere né che cosa fare.  Rimane muta, ma non se ne va. Sostiene lo sguardo della paziente, le stringe  la mano. A un tratto le si riempiono gli occhi di lacrime. Ma non cerca di  fuggire né di nascondere le lacrime né di uscire da quella situazione con un  qualche pretesto. Resta lì, vicino alla giovane. Sente che non si tratta  tanto di «dire la verità», quanto piuttosto di «essere vera». Cerca di  essere il più vera possibile, senza nascondere l’emozione, un sentimento di  pura e assoluta impotenza. Allora la giovane le dice: «Ho capito… Ti  ringrazio… Ma ora parliamo d’altro!».

A ben vedere questa storia può  rappresentare perfettamente molte altre situazioni. Un malato, dopo un certo  periodo, si rende conto che sta per morire. Spesso custodisce questa  consapevolezza in una profonda solitudine. Cerca di condividerla con qualcun  altro. Talvolta, la ricerca di condivisione prende la forma di una domanda,  come abbiamo appena visto, una domanda che non richiede però una risposta. Viene fatta solo per gettare un ponte, instaurare una relazione. E la  maggior parte delle volte noi fuggiamo.

Abbiamo paura della sofferenza  dell’altro, temiamo di disintegrarci in questa sofferenza. Abbiamo paura  delle nostre emozioni, delle nostre lacrime, della nostra vulnerabilità. Ma  se, dinanzi alla domanda che tenta di gettare un ponte, c’è qualcuno capace  di accoglierla a partire dalla propria fragilità, allora la relazione è  stabilita e i pilastri da entrambe le estremità del ponte si  rinforzano.

Il paradosso di questa situazione è che mostrare a un  paziente che si è disarmati, commossi, vulnerabili, lungi dall’indebolirlo  gli permette di accettare la sua condizione umana e la drammaticità del  destino. Rimanendo vicini a lui in silenzio, non abbandonandolo alla sua  impotenza, si produce una comunione intima. Se osiamo condividere i  sentimenti con i pazienti, il crollo delle nostre strategie difensive può  diventare una grazia, una benedizione.

Ma per fare questo non occorrerà  forse accettare di restare indifesi dinanzi all’altro, abbassare le proprie  barriere, entrare dentro la sua impotenza e servirsene come di un trampolino  di lancio per un momento di incontro autentico? Allora non si tratterà più  di una relazione tra una persona forte del proprio sedicente potere o sapere  e una persona indebolita, impotente. Sarà una relazione tra due persone che  soffrono, ognuna a proprio modo, della condizione comune dell’esseri  mortali.

Martin Buber ha meravigliosamente descritto il passaggio dalla  relazione «Io-questo», in cui l’altro è oggettivato come differente da sé,  alla relazione «Io-tu», in cui si diviene coscienti di ciò che accomuna e  lega tutti gli uomini, «la lilā dei mondi infiniti» tanto cara a  Yvan. La ricchezza di questi incontri risiede nella compassione. La  spontaneità della risposta emozionale dell’infermiera ha creato un legame di  solidarietà nella sofferenza, nel momento preciso in cui la giovane paziente  avrebbe potuto sentirsi particolarmente sola.

da auraweb.it

Morire ad occhi aperti di Marie de Hennezel, Edizioni Lindau.

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